Guatemala
Uomini di mais
“..e in fila indiana indios, indios, indios/ incontabili come centomila grosse formiche nere: /diecimila con frecce in pie di nube, mille con fionde /in pie di pioppo, settemila con cerbottane e fili d’ascia /in ogni vetta ala di farfalla caduta in un formicaio di guerrieri.”
I versi di Asturias scolpiscono nella memoria antichi canti degli indios Quiche che ricordano le gesta del principe Tecùn-Uman contro l’arroganza dei castigliani di Pedro De Alvarado che marciarono in Guatemala travolgendo questa terra di foreste chiamata dai Maya Cauthtemallan, luogo dove si abbattono gli alberi,contrasto delle montagne de “las tierras frias”con le grandi pianure di jungla tropicale de “las tierras calientes”.Seguendo la vecchia via dei conquistadores di Alvarado dal Chiapas messicano e lasciando la “panamericana”, la strada si inerpica sulla “mesa” che affonda nei boschi di montagna di verde intenso,improvvisi e dorati si aprono i campi di mais strappati ai versanti con terrazzamenti antichi quanto gli indios piccoli e silenziosi,tuniche colorate e volti di pietra scolpiti dai secoli che li separano dagli antenati Maya,gli “uomini di mais”.Il cuore de las tierras frias è il lago Atitlan abbacinante di blu che riflette il cielo sprofondando nei boschi e intorno i vulcani vegliano da millenni, ma a volte si svegliano e ruggiscono facendo tremare la terra e gli uomini alimentando le leggende di potenti esseri mitologici sopiti nel profondo delle montagne.Nella nebbia diradante dell’alba gli indios a gruppi o solitari se ne vanno a Chichicastenango, il “Posto delle Ortiche” dei Quiche, portando le loro cose al mercato del giovedì e la domenica, arrivano per sentieri vecchi di secoli da lontano per vendere ciò che si può e comprare che serve: frutta, mais,animali,vasellame,ponchos,immagini sacre e chincaglieria per i turisti che arrivano più tardi, mischiandosi in colori e suoni antichi, poi tutti aspettano i riti nella chiesa di San Tomas.Davanti al sagrato un fuoco brucia offerte di mais,spezie, fiori e profumi che salgono fumiganti di antichi riti pagani e si mischiano con l’incenso cristiano, gli indios ripetono cantilene indecifrabili e si uniscono in processione per entrare in chiesa tra danze e canti seguendo il prete con le loro offerte e suppliche di grazie sommesse o gridate in quichè nella mistica esaltazione che fonde il cupo cristianesimo dei conquistadores con dèi e spiriti antichi incarnati nei santi.
L’ indio ferve di vecchio cattolicesimo e lo mescola di intima religiosità arcaica, che invano i missionari hanno tentato di sradicare negli ultimi quattro secoli, egli venera ogni manifestazione dello “Spirito del Mondo” Huracan contenuto in tutte le cose della natura,nell’uomo e negli astri,. Animismo ancestrale sublimato dagli dèi Maya,da Cristo, la Madonna e i santi e nessuno può impedire di pregare antiche divinità in chiesa con riti cristiani o venerare il Redentore con offerte e sacrifici pagani.La festa di San Tomas esplode indigena a Chichicastenango nel giorno del santo e il fuoco sacro davanti la chiesa arde delle offerte migliori,mentre antichi canti e mormorii di strane formule esoteriche si confondono nelle preghiere,i santi convivono con gli dèi e i quichè si inebriano di bevande fermentate danzando il giorno e la notte mascherati da antichi eroi indios e grotteschi conquistadores che si fronteggiano davanti ai cacicchi e gli alcades dei villaggi in una rivincita di quattro secoli persa nella storia.
Conquistadores e pirati
La muy nobile y muy leal ciudad de Santiago de los Caballeros de Guatemala fu decretata da Filippo II la prima capitale Antigua fondata dai suoi conquistadores, distrutta quando la terra tremò nel 1773, ricostruita e più volte danneggiata dai sismi ai quali seppero resistere solo le granitiche costruzioni spagnole.Strade tranquille e assolate, pochi passanti con ponchos e sombreri, le donne indie con strani amuleti che pendono al collo vendono coperte e bamboline di pezza all’ombra delle vecchie mura massicce che si inseguono tra Nuestra Senora de La Merced cesellata di barocco e l’ imponente autorità del Palazzo dell’Alcade. Quando si sparge la luce radente del pomeriggio verso la sera della sierra, nelle calli tra i palazzi severi, le chiese intarsiate e i patios profumati, sembrano tornare i fantasmi della “muy nobile ciudad de los caballeros”, gli zoccoli dei cavalli sul selciato e i pesanti stivali di Spagna che calpestarono i quichè e crearono Antigua sotto il vulcano dalla vetta avvolta di nubi rosa, ma sotto dormono gli spiriti indiani della terra e preparano altre vendette.La vecchia via di Alvarado scende lentamente verso le pianure di foreste squarciate dalle piantagioni di canna, caffè e banane, grandi aciendas dei bianchi che cacciarono gli indios verso la jungla dove si sono aperti piccoli campi che circondano le capanne, poi la selva riprende il suo dominio e si perde nel calore umido de las tierras calientes che hanno coperto di verde per secoli i segreti dei Maya.
Quiriguà è un grande spazio erboso strappato alla jungla dove si ergono le steli intarsiate da “glifi”, libri di pietra dall’indecifrabile scrittura dei Maya che parlano del ghignante dio della pioggia Tlaloc e di esseri mitici dalle forme confuse tra uomo e animali, storie di clan e fatti dimenticati molto tempo prima che arrivassero i castigliani esausti dal caldo e tormentati dagli insetti cercando uno dei tanti Eldorado. La via sprofonda sempre più nella foresta per il lago Izabàl da dove il Rio Dulce serpeggia tra muraglie di verde e sponde selvagge popolate da caimaini, scimmie, uccelli di tutti i colori e giaguari nascosti a predare, poi si restringe verso il mar caraibico vegliato da quattro secoli dal Castillo de San Felipe contro i pirati.Le leggende antiche della jungla si mescolano con storie di filibusta, saccheggi e avventure.
Maya
Una pista continua oltre il fiume inoltrandosi nel Petèn coperto di jungla che pulsa di vita, pochi centri abitati e poi solo sperdute capanne di indios fino alla più alta piramide di Tikal che si erge tra le tremila costruzioni perse nella foresta della città sacra dei Maya. Qui essi raggiunsero la perfezione con le prodigiose costruzioni piramidali, ardite realizzazioni che dovevano innalzare il santuario per isolarlo dalla terra contaminata e proiettarlo al cielo, accessibile solo alla potente casta dei sacerdoti, tra tutte la “Piramide Uno” è la più ardita con l’altezza superiore alla base e uno slancio verticale quasi impossibile, frutto di attente osservazioni e calcoli complicati di cui i Maya furono maestri.Le rovine si stendono per tutta la foresta circostante fino a perdersi nella lontana Uaxatùn che fu il primo centro sorto nella zona e abbandonato con la costruzione di Tikal, ma in tutta la jungla del Petèn i Maya hanno lasciato tracce di pietra della loro esistenza che si interruppe misteriosamente quattro secoli prima dell’arrivo degli spagnoli dopo oltre seicento anni di incontrastato dominio, alcune sono perse nella foresta lungo il rio Usumanacinta dove vivono gli ultimi Lacandones.Pochi gruppi sparsi nelle jungle tra il Chiapas e il Petèn, a volte si raccolgono vicino le misteriose rovine di Bonapak e Piedras Negras costruite dai loro antenati Maya dei quali hanno perso la memoria, ma ne hanno conservato la lingua che si sta estinguendo assieme a loro e portano scolpiti nei volti il mistero di una razza che ha creato una grande civiltà e l’ha abbandonata tornando alla foresta.