La falesia di Bandiagara
Sangha é uno sperduto villaggio nella savana del Mali al confine con il Burkina Faso dal quale si accede alla falaise di Bandiagara, un’ alta parete rocciosa sotto la quale sono arroccati i villaggi dei Dogon , una delle popolazioni più affascinanti dell’ Africa occidentale che ancora conserva il “mistero” di antiche cerimonie che si perdono nella storia di un continente tanto violentato quanto poco conosciuto.
La “falaise” si apre improvvisamente e rocce “lunari” precipitano come una scogliera in una savana nascosta dove per secoli, Irelit è il primo villaggio che si incontra appena scesi dalla parete rocciosa attraverso antichi passaggi. Le capanne cilindriche dalle mura di fango e il tetto conico di rami sono aggruppate come case di fate uscite da un mondo di favola.
Antiche leggende raccontano che i Dogon arrivarono nella zona forse provenendo dal Golfo di Guinea otto secoli fa divisi in quattro grandi tribù, le Ono e Donno si stabilirono nella savana di Sangah, quella Dyon sull’altipiano di Bandiagara e la Aru si avventurò nella falaise all’epoca abitata dai Tellem, cacciatori dalle origini misteriose che praticavano strani riti magici.
I più evoluti agricoltori Dogon scacciarono i cacciatori Tellem dalla storia e ne rimangono solo le abitazioni troglodite scavate nella parete rocciosa, i nuovi riti si mescolarono con alcune delle misteriose pratiche magiche dei Tellem che a loro volta avevano appreso dalla più antica popolazione dei pigmei Andaouboulu persa nella notte dei tempi e ricordata dalla tradizione orale.
L’economia dei Dogon è rimasta la stessa degli antenati che si stabilirono nella falaise, una povera agricoltura affidata ai clan, ognuno dei quali lavora a rotazione un terreno coltivato a miglio e cipolle, mentre le famiglie possiedono orticelli per il proprio fabbisogno, anche l’agricoltura è intimamente connessa con la mitologia ed ogni ciclo agricolo possiede una sua simbologia, sempre oggetto di riti e cerimonie propiziatorie che “attivano” l’ energia vitale latente della terra e delle piante.
I Dogon: tra mito, storia e filosofia
Nel villaggio di Tirelit stanno gli anziani più sapienti depositari della tradizione orale che si tramandano da sempre e dove risiede il più saggio di tutti, difficilmente disponibile a spiegare cose che nessun straniero potrebbe capire e infastidito dai bianchi che scendono nella falaise per “guardare”, senza la capacità di “ascoltare”.
Sono stato a lungo ad ascoltarlo, come un rito che racconta in cantilena il succedersi degli eventi naturali e sovrannaturali perchè il mondo dei “viventi” non è separato da quello dei morti e degli spiriti e tutto rientra in un’ unica grande armonia universale, così fece l’ Ogon cieco Ogotommeli all’ antropologo francese Marcel Griaule cinquanta anni prima.
Secondo la mitologia “Amma” è l’energia vitale cosmica, Essere Supremo e Creazione Continua che generò la terra come femmina e si unì ad essa spargendovi il suo seme, il “Nommo”, l’energia vitale di tutte le cose che divenne acqua, sangue, fuoco e “parola”che ridesta tutte le energie latenti.
Prima tra tutte quella degli “Esistenti” vivi e defunti che sono superiori ai viventi perchè capaci di alimentarne l’energia vitale e proteggerla, attraverso la discendenza si perpetua il “Nommo” degli uomini e la più grande sciagura è non procreare interrompendo il flusso e limitando l’esistenza alla sola vita del corpo.
L’energia vitale
Ai neonati si impone il nome dei defunti che vegliano sulla discendenza e ne accrescono l’ energia vitale, ma che si trova allo “stato puro” solo nei morti, perciò gli anziani partecipano alla natura degli antenati perchè sono più prossimi al momento del trapasso dopo aver superato tutte le fasi della conoscenza.
I vivi devono rafforzare l’energia vitale “Nommo” dei defunti con riti e sacrifici operati dal discendente più anziano del capostipite e tutta la cosmologia Dogon è una perfetta gerarchia di equilibri universali nella quale il “Nommo” si attiva con la “Parola”, solo ciò che non si può “nominare” è considerato irreale, tutto ciò che si può evocare con la parola produce sempre un effetto nell’ Universo ed ogni trasformazione nella natura e nelle cose è un fluire di forze.
Anche la struttura delle abitazioni per i Dogon non è mai casuale, l’ ingresso è il punto attraverso cui l ‘interno comunica con l’ esterno e la porta che lo protegge è simbolo di prestigio da decorare con con decorazioni eseguite dal maestro intagliatore che stabilisce un equilibrio tra le superfici lavorate e quelle rimaste intatte, così come l’universo è equilibrio tra ciò che è “attivato” e ciò che è latente.
Il maestro intagliatore è considerato una specie di mago che riesce ad esprimere “ciò che deve essere” per il bene della collettività attraverso le sue statue e le maschere che solo attraverso l’energia trasmessa dalla Parola si trasformano da semplici pezzi di legno intagliati in ricettacoli di entità sovrannaturali, soprattutto le maschere che si esprimeono nella danza “M’nango”.
I misteri del M’ nango
L’origine della danza mascherata M’ nango risale al primo clan Dogon degli Anibeon che introdussero la ritualità animista “Ommolo-Bulone” sostituendo gli antichi culti magici dei Tellem ,ad essa possono partecipare solo i migliori iniziati della società segreta delle maschere che hanno superato il rito misterioso dell’ “Ounosie-Mon”.
I tamburi rullano tra le rocce della falesia dallo spiazzo sacro davanti alla “Casa degli Uomini” Toguna e gli anziani maestri dell'”Ounosie-Mon” chiamano il villaggio per assistere alla cerimonia. La prima maschera che si proietta improvvisamente nell’area sacra è una “Kanaga” sormontata da una doppia croce che simboleggia l’equilibrio tra il cielo e la terra, suprema rappresentazione dell’ ordine universale . Altri iniziati mascherati irrompono nello spiazzo al ritmo dei tamburi che aiuta gli spiriti degli antenati ad entrare in quei corpi e “possederli” per manifestarsi alla comunità.
Le maschere “Samo” ricordano il popolo di razziatori contro i quali gli antenati combatterono con la forza delle entità protettrici, mentre il solitario “Satimbe” dalla figuretta femminile isopra la maschera entra nella rappresentazione del “Circuito Cosmico” muovendosi estraneato al ritmo selvaggio degli altri danzatori. La statuetta rappresenta la capacità creativa dei viventi che raffigura le cose attraverso la scultura.
Si aggiungono le maschere “M’nakele-Ekanega” e le “M’ngionde”che rappresentano antilopi e lepri, inseguite da quelle che simboleggiano gli antenati cacciatori. Tutti i danzatori eseguono i movimenti propri della maschera e dello spirito che li possiede, diretti dagli anziani depositari del misterioso “Ounousie-Mon” appreso durante la celebrazione del “Sigi” che si tiene ogni sessanta anni per rinnovare l’ energia vitale della tribù, che solo essi sanno interpretare avvicinandosi agli antenati e le entità sovrannaturali che si manifestano periodicamente nel M’nango.
Danzando su alti trampoli compaiono le “M’naia”, fantastiche maschere che rappresentano fanciulle Fulbe dai seni finti di legno e ricche di decorazioni, rappresentando un’ antica leggenda che vide gli antenati Dogon attirati dalle donne Fulbe nell’ equilibrio della forza e della bellezza.
Quando tutte le maschere sono entrate nel “circuito cosmico”del M’nango il ritmo e la danza diventano sempre più frenetici e gli iniziati entrano nella loro trance “posseduti” dagli spiriti e le entità che rappresentano nel culmine della cerimonia durante cui gli antenati comunicano con la collettività in un crescendo di esaltazione che coinvolge tutti e anche lo straniero che assiste sente la presenza fluida delle forze sovrannaturali che svelano il mistero dei Dogon.
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