Africa SettentrionaleSahara

Sahel

Attraverso la “terra di confine”

Tra il Sahara e le savane africane si stende l’immenso territorio arido che va dalla Mauritania al Sudan, attraverso il Mali, Niger e Burkina Faso, quattro milioni di chilometri quadrati tra l’Africa “bianca” e quella “nera” che gli arabi hanno chiamato Sahel, terra di confine. La media delle precipitazioni difficilmente supera i trecento millimetri negli anni più piovosi e concentrate in brevi periodi durante i quali la preziosa umidità evapora per il novanta per cento nell’aria torrida che asciuga il terreno non in grado di trattenerla, scarsa fonte di vita solo per la steppa e l’erba gialla markouba, mentre il deserto avanza inesorabilmente sui magri pascoli stagionali dei nomadi che si spingono verso le zone più meridionali. Essi sfruttano al massimo i pascoli periodici senza un ordine preciso e nella brevissima stagione umida le tribù con il bestiame si attestano vicino alle occasionali pozze pluviali fino al loro inaridimento per ricominciare la ricerca di altre zone verso le lontane paludi del Niger, per secoli i hanno cercato di adattare l’ambiente tracciando piste e scavando pozzi, ma dove riescono a produrre un pascolo occasionale lo sfruttano completamente, perché il nomade non può che seguire il suo gregge che, a sua volta, cerca l’acqua e il foraggio, un ciclo arcaico reagolato da bisogni primari senza pianificazione e dettato solo dalle leggi naturali e da convenzioni secolari tra Tuareg, Tebu, Mauri, Pehul, Fulbe, Toucoleurs ed altri, nonché con le popolazioni di agricoltori neri sedentari del sud. e nella savana, per l’arcaico scambio dei rispettivi prodotti e che ha permesso la nascita di importanti centri carovanieri. Tra tutti i nomadi i Tuareg riescono a mantenere il difficile e spesso drammatico rapporto con questo ambiente, saldamente legati ad una società regolata da tradizioni antichissime, essi penetrarono nel Sahel dal Sahara raggiungendo il Niger nel settimo secolo, depositari di una cultura originale particolarmente legata all’ambiente e a tradizioni ancestrali, condividendo con le altre tribù un’esistenza arcaica dalle regole immutabili, le transumanze, il traffico carovaniero e gli scambi con gli agricoltori, un equilibrio spesso turbato da periodi nefasti di siccità, carestie, violenti conflitti etnici e le razzie periodiche nei centri del sud. Quando i francesi iniziarono la conquista dell’immenso sud sahariano e il contiguo Sahel, le tribù nomadi cercarono di resistere, ma solo i Tuareg riuscirono a superare gli antichi contrasti tribali e riunire le loro confederazioni opponendosi fieramente agli europei per decenni fino alla capitolazione nel 1917. L’oleografica “epopea” della Legione Straniera continuò per anni sterminanando intere tribù e favorendo le popolazioni di agricoltori neri sedentari nell’occupazione di vaste aree tradizionalmente occupate dai pascoli, spingendo i nomadi nelle zone più inospitali, i Tuareg furono i più colpiti, alcune confederazioni si sciolsero e molti clans si disgregarono, le famiglie più potenti persero di autorità e un ordine secolare venne completamente sconvolto. Anche tra gli altri nomadi la tradizionale propietà collettiva del bestiame si trasformò in propietà privata e l’antica coesione del tribale disgregata, riducendo coloro che non posseggono bestiame a servi, creando una grande differenziazione tra i vari gruppi per la quale solo un decimo di essi possiede allevamenti eccedenti alle esigenze e che può arrivare a seicento bovini e novanta cammelli, i tre decimi non oltre i cinquanta bovini e dieci cammelli, mentre il resto delle popolazioni saheliane possiede solo qualche capo assolutamente insufficiente alla sopravvivenza. Negli ultimi venti anni vi sono stati periodi di siccità che hanno sconvolto ripetutamente i pascoli del Sahel, provocando bibliche migrazioni verso i miserabili campi profughi in Mali e in Niger ad enormi distanze da percorrere a piedi:le tribù, i clan, le famiglie si divisero in piccoli gruppi lottando con il tempo, la fame, la sete e le malattie ed ognuno pensò alla propria sopravvivenza. Bassi alberelli radi e rinsecchiti, cespugli spinosi, qualche sparsa palma “dum” e la sabbia portata dagli alisei che soffiano dal Sahara, alle spalle il grande deserto, davanti la regione fossile del Tilemisi che si apre come una bolgia dantesca verso le sagome nere dell’Adrar des Iforhas, colli desolati dai quali prende il nome la grande confederazione Tuareg decimata dalle carestie che si sono succedute in questa sciagurata “terra di Confine”. Un cartello metallico storto e scarabocchiato annuncia che si entra in Mali su una pista sabbiosa che taglia la steppa di erba secca dove spuntano spettri appiedati che agitano recipienti chiedendo acqua, sopravvissuti alle siccità che flagellarono il sahel decimando intere tribù, disperdendo popolazioni e sterminando parte dei Tuareg Iforhas, nobili e fieri carovanieri e predoni ridotti a cenciosi questuanti lungo la pista per Gao. Il conflitto tra la forza e dignità con la miseria è sempre presente tra i nomadi, a volte predomina l’anima più antica e una figura solitaria, sfinita dalla sua silenziosa disperazione, vede come un miraggio lo straniero da portare al suo misero accampamento a molti chilometri di distanza che ha percorso a piedi nell’improbabile ricerca di un soccorso L’unico maschio adulto e capo di un piccolo gruppo ha il dovere di rischiare la vita per provvedere alla sua gente che agonizza nelle povere tende con i volti stravolti e rassegnati, alcuni stremati dalla dissenteria al culmine di un’epidemia di colera:acqua, cibo, medicinali, raccomandazioni a coloro che non sembrano contagiati e la speranza di averli salvati, l’impotenza per una tragedia ormai compiuta, silenziosa e arida come i cepugli rinsecchiti di questo Sahel, di questa Africa che ti avvoge di grandezze e miserie. La pista continua nell’ambiente cupo e desolato dell’Adrar des Iforhas, creste nere di roccia che si staccano dalla pianura gialla e assolata, rifugio di serpenti e scorpioni, perfetta corrispondenza con la miseria dei Tuareg che ne prendono il nome:da queste parti turisti che cercano l’Africa da depliants non ce ne sono e si consumano tragedie silenziose. Il minuscolo Tessalit è il primo centro che si incontra in Mali venendo dalle piste del Sahel dopo la traversata sahariana, poche case di fango e la presenza inquietante degli Iforhas diventati sedentari per disperazione, isolati e disprezzati dai fratelli ancora nomadi che preferiscono l’estinzione piuttosto che sottomettersi ad una vita estranea. Mentre il sole scende tingendo di rosso il resto del mondo circostante, un recinto di pietre accoglie silenziosi Tuareg che si prostano e si rialzano meccanicamente nella preghiera del Maghrib nella canonica “Arkan-ad-din” della “Shart’ah” coranica, ma ripetendo le “Ràkaa” della Sura “Fatihah”, come vuole la stesura di Zabid-bin-Thabit professata dall’Islam africano, non si curano del Kafir “infedele”che li guarda e conosce storia e significato di quei gesti, ma quella religiosità solitaria in questo pezzo di mondo sperduto forse è più antica di ogni testo sacro:loro cercano Dio nel controluce del sole che scompare dopo giorni di traversata sui loro dromedari con un pugno di datteri, accompagnati dal vento e la solitudine. Il the bolle assieme all’acqua nella vecchia teiera sui carboni, che scaldano nella notte del Sahel in inverno, la più anziana del piccolo accampamento Iforhas mescola lo zucchero scuro e grezzo e nella solennità di un rito versa il liquido profumato dall’alto facendolo spumare nei minuscoli bicchieri per offrirlo almeno tre volte con tutta la serietà della tradizione, la freschezza bollente del the distende le tensioni della pista e svela il significato di questa semplice cortesia che appare una cerimonia all’ospite in un campo Tuareg. Fantastico Sahel, dove in un accampamento sperduto la strega racconta che i gran demoni”Malik” e “Ash-Satain”, che Allah li maledica ancora, fecero seccare i pozzi e la siccità uccise uomini e animali, bocca sdentata in un bel volto antico e scrigno di misteriose conoscenze che cerca il destino dello straniero nei sassolini gettati nella sabbia per interrogare gli spiriti: qui il reale sfuma così facilmente nell’irrazionale che ogni cosa sembra possibile. Sulle piste sabbiose verso il Niger si incontrano più numerosi i gruppi di Pehul o Fulbe, diffusi in gran parte dell’Africa occidentale, che conservano le loro antiche tradizioni dalle origini misteriose cercate dagli studiosi nelle profondità della storia africana: l’inglese Barth afferma che arrivarono in epoche remote dal Touat marocchino, lo storico Anta Diop ne sostiene la discendenza dagli antichi egizi, altri da gruppi ebraici siriani dalla pelle scura, teorie più fantasiose delle storie raccontate dai vecchi “griot” ambulanti nei villaggi africani. Forse anche i Fulbe discendono dagli antichi abitanti preistorici del Sahara, ma molte caratteristiche fisiche e culturali sono simili alle popolazioni di allevatori camiti dell’Africa orientale da dove emigrarono in epoche remote attraversando il Sahara dei mitici Garamanti. Dei due milioni di Fulbe, solo circa ottantamila sono completamente nomadi e si spostano continuamente seguendo le mandrie senza mete prestabilite, per essi esiste solo la quotidianità, nessuno si pone il problema del “futuro”, perché” le mandrie cercano acqua e pascolo, noi seguiamo le mandrie, così è sempre stato e vuole il dio Gueno”, difficile dimenticare questa filosofia della vita esposta lapidariamente da un capo clan nel Sahel. È un popolo che ama sopra ogni cosa le proprie bestie e le difende con coraggio contro qualsiasi pericolo o nemico da vero pastore-guerriero che sa adoperare spada e zagaglia contro i razziatori, fondò anche un potente regno nel XXV° secolo tra Sahel ai la savana, a tale periodo si deve la sedentarietà della maggioranza delle tribù Fulbe dalla leggendaria bellezza delle donne e gli uomini che ostentano un’ineguagliata vanità, tanto da celebrare veri “concorsi di bellezza” ornandosi con fantastiche decorazioni. Attraversando il teritorio dei Fulbe verso la savana, le mandrie in movimento accompagnate dagli eleganti pastori e le ragazze dalla superba bellezza ai pozzi, sono quotidiani spettacoli di grazia e fierezza nell’ambiente circostante che si addolcisce, i villaggi si susseguono tra i campi di miglio e la vita drammatica del Sahel si trasforma mentre la pista sabbiosa procede tra i baobab dove sciamano gli uccelli, gazzelle e facoceri corrono lungo il tracciato polveroso e da lontano la fascia verde delle paludi annunciano il Niger Ghir-N-Lgherien, “Colui-che-Canta”, come lo chiamano i Tuareg, dove termina il Sahel e ricomincia la vita.
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