Kasbah: Marocco
Kasbah
La Via delle Kasbah
Stagliate su nel cielo appaiono montagne che il lavoro di secoli ha arrotondato come cupole o dentellato come seghe. Nelle rare, minuscole oasi i fiori dei peschi e dei mandorli brillano come neve caduta dalle vette lontane. Le kasbah si susseguono in terra rossa e sembrano tutte uguali, ma la loro identità è solo apparente: mille diverse particolarità nella disposizione della pianta, nella decorazione delle mura e delle torri, nell’ampiezza della costruzione, le differenziano non appena l’osservazione si fa più attenta. Ora si intravvedono dietro un sipario di palme, ora si ergono spavalde, dominatrici, su un cocuzzolo calvo le cui pieghe sembrano riprendere e continuare le linee architettoniche dell’edificio. Tutto sottolinea le antiche funzioni militari delle kasbah: le larghe torri d’angolo, i merli dentellati o appuntiti, le griglie in ferro che proteggono ogni finestra, ogni esiguo pertugio. Nell’interno, tre corridoi separati da due cortili permettono di accedere alla corte d’onore. Il centro della kasbah è la dimora personale del capo e dei suoi numerosi servi. Tra le due prime corti è un flusso e riflusso continuo, rumoroso, variopinto, in cui sì mescolano montanari, bambini, montoni, donne, domestici, cavalli, cani, polli. muli. Quarant’anni or sono il baroud era tin male endemico. Allora le kasbah servivano come piazzeforti e ogni notte uomini e bestie vi trovavano un sicuro rifugio. Esse fungevano anche da deposito per i raccolti onde evitare i colpi dì mano dei razziatori. Le più importanti hanno l’aspetto di veri villaggi fortificati. Oggi sono diventate pacifiche abitazioni di coltivatori, che, racchiudono nella cinta delle mura color ocra da trecento a cinquecento abitanti; altre danno ricovero a una sola famiglia, ma compresi i servi si tratta pur sempre di una cinquantina di persone. Le kasbah di Ouarzazate, chiuse tra il fiume e la jnontagna, sono tra le più interessanti del sud marocchino. Immense, splendide, liriche oserei dire nella loro solitudine essenziale. Appaiono impenetrabili e fatali, al punto da credere che questi feudali manieri di argilla non facciano realmente parte del paesaggio ma siano invece una pura esigenza del nostro spirito, nati dentro di noi per dat volto ai nostri pensieri più segreti.Alcuni degli edifici cadono in rovina; altri sembrano perfettamente nuovi. Qui non si ripara, nulla si riedifica. La natura trionfa rapidamente di queste costruzioni dalle linee sobrie e maestose, masse immense che sarebbero opprimenti senza i piani creati dal gioco magico delle lucie delle ombre. Quando una kasbah va in sfacelo torna semplicemente alla natura, sembra fondersi nel paesaggio come se dietro al suo aspetto di effimera opera d’arte dell’uomo ritrovasse un suo carattere eterno, immutabile, di elemento della natura. Quando vi passano in rassegna, nel percorrere la pista si ritrovano tutti i successivi stadi di trasformazione dell’edificio dal monumento perfetto alla materia prima. la terra. Una kasbah sparisce, si cancella quasi con la stessa rapidità con la quale periscono gli uomini che l’hanno costruita; ma ne nasce subito un’altra, in tutto simile alla precedente parimenti grande e decorata, quasi fosse la nuova incarnazione di un disegno eterno.E’ il ciclo della vita: allo stesso modo codesti uomini dalla rude scorza saranno un giorno sostituiti da altri uomini simili a loro. Potrebbe sembrare il trionfo della morte; ma non si prova ombra alcuna di malinconia perchè una sbalorditiva gaiezza fa di questa terra di sole una terra di vita.Quando si lascia Ouarzazate, diretti verso est, ai bordi della pista si incontra una koubba bianca sormontata da una mezzaluna di rame dove è sepolto Sidi Daud, un santo vissuto nella prima metà del secolo scorso. Narra una leggenda che i soldati del sultano Abderrahmane, in cerca di legna in quella località, videro con superstizioso stupore i rami secchi che avevano raccolto, tramutarsi all’improvviso in tanti serpenti. Naturalmente si diedero alla fuga e raccontarono al loro capo il prodigio verificatosi. Il sultano, incredulo, volle rendersi conto di persona della veridicità della fantastica storia. Il prodigio sì rinnovò e questa volta si udì anche una voce misteriosa che ingiunse al sultano di costruire in quel posto una koubba.In occasione della festa di Sidi Daud, che cade il quindici agosto, qui si svolge un pio pellegrinaggio; i malati incurabili sono distesi su una stuoia all’interno del piccolo santuario e rivolgono fervide preghiere al sant’uomo affinchè interceda presso Allah per ottenere la loro guarigione. Gli anziani sostengono che se i malati hanno veramente pregato con tutto il cuore saranno esauditi riacquistando la salute.Fino a Skoura, per una quarantina di chilometri, la regione che si attraversa èdesertica. Skoura si adagia in un palmeto lungo quindici chilometri e largo cinque con le sue severe kasbah sparse tra il verde. Le donne di Skoura godono di una certa rinomanza per la loro bellezza e la loro civetteria; esse amano adornarsi di numerosi gioielli, collane e braccialetti. Già duemila anni or sono Leone l’Africano lo aveva annotato. La tradizione è tuttora vivae le donne di Skoura sfoggiano braccialetti d’argento massiccio del peso di trecento grammi. Tra le palme e i campi d’orzo crescono numerosi alberi da frutto: prugni, albicocchi, mandorli; alla loro ombra fioriscono le rose dai cui petali viene estratta una essenza profumata molto ricercata dalle ricche musulmane di Fès e di Marrakech. Più oltre, verso est, la pista continua in una zona arida, attraversando il letto asciutto di numerosi uadi. In queste regioni piove raràmente, ma quando scoppia un temporale le acque, precipitando dalle pendici delle montagne, trasformano in un attimo gli aridi uadi in torrenti impetuosi che travolgono ogni ostacolo. Le piste allora diventano impraticabili e accade che i turisti restino bloccati tra due corsi d’acqua in piena, costretti ad attendere il deflusso delle acque.Dopo i cinquanta chilometri di deserto calcinato dal sole, la visione delle kasbah di Kelaa des M’Gouna, che si stagliano sulle alte rive dello uadi M’Goun appare come un miraggio. Queste kasbah sono tra le più belle e imponenti. Una di esse, monumentale è costruita su uno sperone roccioso che si avanza verso lo uadi come la prora di una nave ed erge verso il cielo le sue terrazze sovrapposte.La pista prosegue fino alla valle del Dadès. Le rive dello uadi sono sfruttate per le coltivazioni fino ai limiti estremi della zona irrigabile, che non supera da un lato e dall’altro i quattro o cinquecento metri. Prima di raggiungere Bou-Malne (115 km) vale la pena di risalire per circa trenta chilometri la valle che il Dadès ha scavato nella montagna. La strada si inerpica a strapiombo, ora sulla riva destra ora su quella sinistra del fiume. Qui la buona terra è così rara e preziosa che tutti i pezzetti sono coltivati a orzo, a mais o piantati a olivi, fichi, mandorli. A poco a poco il letto dello uadz si restringe fino a che le alte pareti rocciose quasi verticali diventano una gola selvaggia di pietra rossa, larga qualche metro appena.Si ritorna sulla pista principale: dopo una cinquantina di chilometri si scorge verso est, al di sopra delle terre desolate, una Itinga linea verde che assume contorni sempre più precisi: è il palmeto di Tinerghir che si estende sulle rive del fiume Todra per venti chilometri, fino alle pendici del Djebel Sagho. La sistemazione nel piccolo albergo di Tineghir è confortevolissima e tale da consigliare una intera giornata di riposo.Anche il fiume Todra vanta una gola spettacolare che dista dal villaggio soltanto pochi chilometri. Lungo il percorso si incontra una sorgente miracolosa. Questa sorgente ha la sua leggenda: gli indigeni sostengono che essa avrebbe il potere di rendere prolifiche le donne sterili. E’ sufficiente che le donne attraversino lo specchio d’acqua invocando Dio perchè conoscano le gioie della maternità.Da Tineghir a Ksar-es-Souk il territorio è desertico e la vegetazione scarsissima. Tinjdad e Gotilmima. al margine delle oasi dei fiumi Gheris e Ferkla. sono i soli villaggi che si incontrano.A Goulmima l’abitato è deserto: ttìttì gli uomini sono nei campi a lavorare. Nelle ksar non rimangono che donne e bambini. Le donne di Goulmima portano pesanti bracciali di argento, e amano ornare la fronte con diademi di monete o di placchette d’argento cesellato. Indossano abiti di colori differenti a seconda della religione: le musulmane portano vestiti di cotone blu, le i6raelite di cotone rosso. Lo spettacolo delle fanciulle che ritornano (lalla fonte reggendo l’anfora sulle spalle rievoca i tempi della Bibbia e ci ricorda che l’acqua è qui un bene immensamente prezioso.Prima di Ksar-es-Souk si può raggiungere Rissani distante una trentina di chilometri nel Tafllalet, la cui capitale Sijilmassa descritta dai cronisti medioevali come ricca e potente. Nel 1600 la città fu restaurata dal grande sultano Moulav Ismail. i cui antenati erano appuntt) originari del Tafilalet. A Sijilmassa è sepolto in un mao-solco Motìlav Ali Cherif. fondatore della attuale dinastia regnante. Nel secolo scorso l’antica capitale venne rasa al suolo dagli Ait Atta, una fiera tribù berbera del Djebel Sagho, l’ultima tra ìe zone del territorio ad essere pacificata nel 1939. A Rissani è ancor vivo il ricordo di un ufficiale leggendario, il capitano Henri de Bournazel, primo capo del locale ufficio degli Affari Indigeni. Il capitano de Bournazel uscito miracolosamente incolume da molti combattimenti, morì nel 1939 durante la pacificazione del Djebel Sagho, mentre attaccava Bou Gafer. Il capitano de Bournazel combatteva sempre indossando un abito rosso che lo rendeva un ottimo bersaglio per il nemico. Egli affermava che questa divisa era la sua haraka, o, in altre parole, che gli portava fortuna. Il giorno in cui venne colpito a morte, cedendo alle insistenze dei suoi subalterni egli aveva indossato, sopra la sua tunica rossa, una djellaba di tela che lo rendeva del tutto simile ad un soldato qualsiasi. La sua rossa divisa non più visibile aveva cessato di portargli fortuna. Da Ksar-es-Sotìk la strada punta verso nord e, dopo aver costeggiato il canvon dello uadi Ziz, supera la catena del Grande Atlante al passo di Tizi-N’ Talremt. Di qui scende su M.idelt e prosegue per Meknès.
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