Marrakesh Marocco
Marrakesh, la città rossa che annuncia il deserto dal quale venne Il fondatore della città Ben Tachflne nella metà del secolo XI, guerrieri sabariani con il volto velato dal caratteristico litham come i tuareg, superati i valichi dell’Atlante, calarono nella regione dello Haouz. Avevano appena raggiunto la pianura quando il loro capo Abou Beker fu costretto a tornare in Mauritania per reprimere una rivolta scoppiata laggiù tra i suoi sudditi. Egli lasciò il comando dell’esercito al suo fido luogotenente Youssef ben Tachfine e gli raccomandò anche di aver cura della moglie. Il suo luogotenente eseguì gli ordini con tale assoluta, militaresca perfezione che due anni più tardi, allorquando Abou Beker fece ritorno, rifiutò di restituirgli l’armata e l’amata, lo colmò di doni e gli ingiunse di riprendere la via del deserto. Youssef ben Tachfine si era accampato in una località assai temuta dalle carovane, al punto tale che i berberi l’avevano soprannominata Marroukech vale a dire all’incirca: « dattela a gambe ». Il posto, nonostante il nome inquietante, pareva scelto bene: l’unico inconveniente grave era la mancanza d’acqua. Il condottiero fece scavare dei pozzi che unì con una rete di condotti sotterranei. Da vero sabanano fece poi piantare l’albero del suo paese, la palma. Realizzò così il miracoloso trapianto di un’oasi sabariana con 90 000 piante, fenomeno unico sul versante nord dell’Atlante. Quarant’anni dopo la sua fondazione, mentre al capo opposto dell’ Islam i crociati si impadronivano di Gerusalemme, Marrakesh era la capitale di un impero vastissimo che si stendeva dall’Ebro al Senegal e da Algeri all’Atlantico. Assopita ai margini della sua oasi, ai piedi di una delle catene montane più fiabesche del mondo, la Capitale del Sud èanche una capitale dell’incredibile, dell’inattuale. Mettete insieme questi ingredienti: più di duecentomila abitanti; una medma (città araba), labirinto quasi inestricabile che non si riesce mai ad esplorare a fondo; una mellah (città ebrea) brulicante e laboriosa; una popolazione di notabili e di straccioni; parecchie migliaia di europei che vi amano svernare: dunque quattro città sovrapposte! Un casinò, trenta alberghi, battaglioni di militi del governo, nugoli di lustrascarpe, di perdigiorno, di baiadere, di guide, di incantatori di serpenti, di Dulcamara, di saltimbanchi…A dispetto dell’etimologia del nome, tutto qui invita al soggiorno. Nelle giornate di immobile splendore la limpidezza dell’atmosfera avvicina i secondi piani rendendoli ditale prodigiosa evidenza che par di toccare le nevi delle vette nello stesso istante in cui si gusta lo smalto di una ceramica o le proporzioni di una architettura o la verde corona di una palma.Il minareto Koutoubia domina la città, edificato da soldati spagnoli prigionieri e celebra in eterno nel cielo dell’Islam la disfatta che el Mansour inflisse agli infedeli, ad Alarcos. La Koutoubéa porta alla perf ezione le qualità più positive dell’arte marocchina: semplicità di linee, gioco armonioso di toni caldi, ricchezza della decorazione senza quegli eccessi di cattivo gusto moresco che troppo spesso ricordano le architetture delle torte nuziali da paese. Tutto il complesso è messo in risalto dai giardini e dalle aree lasciate libere intorno al celebre monumento.Il sole africano trae barbagli da tre grossi globi in rame, posti sulla sommità del minareto, il più grosso dei quali misura due metri di diametro. Un tempo essi erano in oro fino a quanto dice la leggenda: un dono della moglie di El Mansour che aveva sacrificato i propri gioielli. Ma anche nei paesi delle fiabe le esigenze economiche hanno un loro realistico spietato linguaggio; così neppure la Koutoubia èsfuggita alla dura legge della svalutazione e il prezioso metallo venne recuperato per sanare il bilancio dello stato.Nel cielo terso una bandiera, nera il venerdi, bianca gli altri giorni ,segnala ai fedeli l’ora della preghiera. Da secoli il muezzin, cinque volte il giorno, sale sul minareto e lancia ai quattro punti cardinali il suo canto gutturale invitando i fedeli ad implorare Allah.Cangiante a ogni ora del giorno, quasi vivente e carnale, la Koutoubia, rimane come un prodigioso segnalibro nel diario dei ricordi che il turista sfoglia idealmente. E’ un gigantesco punto esclamativo d’ammirazione posto accanto alla sorprendente piazza di Djema el Fna. Questa piazza rimane ancor oggi il cuore della città; mille volte descritta, non appareanai simile alle descrizioni, le quali non possono coglierne che uno dei molteplici aspetti. Col trascorrere delle ore si modificano luci e colori e con essi varia la folla. All’ombra delle grandi stuoie sostenute da pertiche si installano commercianti di ogni genere: venditori di spezie, di frutta, di verdura, di erbe rare, di amuleti, di bazzecole che attirano irresistibilmente la gente discesa dalla montagna. Si incontrano rigattieri la cui merce consiste in un ciarpame di scatole di conserva vuote, di bottiglie, di vecchi bottoni; cucinieri che preparano frittelle e fanno rosolare salsicce; mercanti di pane imbacuccati e impassibili; scrivani pubblici… E ancora: barbieri che fanno salassi; farmacisti e guaritori si attorniano di alambicchi e di denti di volpe, di lucertole impagliate, di polvere di vipera disseccata e consegnano al cliente con gesti ieratici l’oggetto che deve miracolosamente guarire i mali del corpo o dello spirito. Nel pomeriggio e verso il crepuscolo Djema el Fna diventa il regno dei saltimbanchi, dei narratori di fiabe (tratte dal repertorio inesauribile delle « Mille e una Notte»>, dei danzatori e soprattutto dei celebri incantatori di serpenti. Un tempo la chiamavano « Piazza della Distruzione», o raduno dei defunti, perchè vi venivano esposte le teste mozze dei giustiziati. Oggi si preferisce chiamarla Piazza del Commercio. E’ una piazza folle, una place Pigalle delle genti del sud: mercato pubblico, teatro all’aperto, kermesse permanente, incrocio di tutte le leggende, luogo di predicazione e di vizio, giorno e notte, notte e giorno, senza sosta, sotto la vampa del sole o alla luce delle torce e delle lampade fumose.Veramente l’anima del sud è qui, nei capannelli di curiosi e di .sfaccendati – che dall’alba al tramonto, si formano e si dissolvono attorno agli imbonitori. E di certo per l’impossibilità di far udire in tanto bailamme il suono della fatidica tromba, quando verrà il momento l’Angelo del Giudizio non riconoscerà i buoni dai cattivi!D;ema el Fna è il vestibolo di una Medina immensa, particolarmente tortuosa: avventurarcisi da soli è un’impresa senza speranza perchè, dopo aver percorso alcuni chilometri, ci si ritrova sempre al punto di partenza. Stradine misteriose e oscure fiancheggiano le case ciascuna delle quali è un piccolo mondo pieno di segreti. Le case musulmane offrono allo sguardo una facciata cieca o con pochissime finestre difese da griglie. Il corridoio di ingresso è costruito a gomito per evitare gli sguardi troppo curiosi dei passanti; ma dentro, per cuore hanno giardini e patii deliziosi, decorati con piastrelle policrome dove le fontane mormorano dolcemente. Tutte codeste viuzze, per i vari giochi di luci ed ombre e le apparizioni fantomatiche di donne velate, hanno tuttavia una loro fisionomia; si tratta di infinite variazioni su uno stesso tema.La Med’ina evoca le città bibliche e al tempo stesso quelle europee dell’alto Medioevo. I souk sono numerosi e pittoreschi: vi è quello degli orafi, dei fabbri, degli armaioli, degli artigiani del rame, dei lavoratori del cuoio. Specialmente interessanti le kissarias dove sono raggruppati i mercanti di tappeti e i sarti: famosissimo poi il souk dei tintori. Le grandi vasche colme di liquido a colori brillanti formano come una gigantesca tavolozza da pittore. Le matasse a tinte vivaci sono appese al sole per asciugare: certe stradine ne sono parate a festa quasi a salutare il passaggio di un ospite di riguardo. Gli amanti della fotografia a colori saranno qui ripagati di ogni fatica e di qualche scomodità.La vittoria di Alcazar Kebir diede a Moulay Ahmed el Mansour l’occasione di erigere nella città un palazzo degno del passato e dei futuri destini della città rossa. Il denaro pagato per il riscatto dei nobili portoghesi fatti prigionieri gli consentì di celebrare il suo trionfo eternando nella pietra le glorie della propria dinastia. Il palazzo di EI Bedi, che il Vittorioso fece costruire, era decorato con pregiati marmi di Carrara e, a dar retta ai cantastorie arabi, eclissava per magnificenza le più fastose residenze orientali. Migliaia di prigionieri cristiani e di schiavi neri razziati nel Sudan lavorarono a lungo per edificare questa dimora regale destinata a sorpassare, in bellezza e in grandiosità, ogni edificio costruito fino ad allora nei paesi islamici. Della immensa costruzione, una specie di paradiso in terra dove erano profusi a piene mani oro, marmi, pietre dure e legni preziosi, nulla rimane. Moulav Ismail la fece distruggere all’inizio del 1700.Tuttavia le tombe dei sultani sa’diti ci consentono di immaginare come doveva essere. Per giungere a queste tombe si percorre un angusto ed oscuro corridoio, per cui l’impressione che si prova entrando nel sacrario è ancor più forte. L’arte decorativa qui è portata al parossismo: la ricchezza degli ornamenti in marmo, stucco e legno, lascia stupefatti. Il contrasto appare ancora maggiore se si paragona questo mausoleo alla tomba di Youssef ben Tachfine, il fondatore di Marrakesh, sita presso la Koutoubia: umile, spoglia, veramente degna di un uomo, di Marrakesh vanta numerosi giardini la cui visita è piacevolmente distensiva: l’Aguédal, la Menara e il giardino dell’Hotel della Mamounia. L’Aguédal è immenso, ricco di alberi da frutta con ampi bacini d’acqua in cui si specchiano le vette nevose dell’Atlante. Qui un tempo il sultano organizzava le sue feste private. Il giardino della Menara, assai più piccolo, èpieno d’ulivi. Al centro una grande vasca riflette un chiosco bianco con il tetto di tegole verdi. In passato era questo il luogo di ritrovo dei sultani con le donne dell’harem. Il medico di Enrico IV, Jean Mocquet, che vi era entrato per curiosare, scoprì delle donne al bagno e dovette uscire di gran corsa scavalcando il muro per evitare di essere giustiziato. L’Albergo della Mamounia, in stile un po’ vecchiotto, è uno dei più accoglienti e lussuosi del mondo e per un lungo periodo fu il soggiorno preferito da Winston Churchill che amava passeggiare nei suoi magnifici giardini.La visita della città si conclude con il giro del palmeto, per il quale conviene noleggiare un’automobile, e dei bastioni.I bastioni che circondano la città misurano un perimetro di quindici chilometri. Sono costruiti in fango rosso tabia e fiancheggiati a intervalli da torri di diverso stile. Queste fortificazioni erette nel 1130 sono state distrutte nel corso di numerosi assedi e ricostruite parecchie volte. La formidabile cinta ha dieci porte. Le più importanti sono: Bab Doukkala a occidente, Bab Khemis a settentrione davanti a Bab Khemzs, ogni giovedì, si svolge un pittoresco mercato che richiama genti del deserto e della montagna. A sud si aprono Bab Ailen e Bab Aghmat. Bab Ahmar si trova verso i giardini dell’Aguédal; Bab Roob guarda a sudest. Bab Djedid, aperta solo nel 1915, mette in comunicazione la Medina con i giardini della Menara. Infine Bab Aguenau, all’ingresso della casbah, offre un esempio magnifico di architettura almoravide. Questa porta deve il suo nome ad una storpiatura del vocabolo berbero agnaw, il negro. Il significato letterale è «il muto »da intendersi come colui che parla un linguaggio incomprensibile.
Un’ antica storia araba racconta… «A cento leghe da laggiù, ai piedi di una catena di montagne dove la neve regna eterna, in una cerchia di verdi giardini, di palme e d’ulivi, sorge una città: immenso labirinto di mattoni e di fango disseccato che il vento da secoli sgretola e riduce in polvere fina e che si ricostruisce senza tregua… Una città dai toni di gazzella, di cui i pittori cercheranno invano di fissare il colore… »[flickr_set id="72157626565235433"]